Guerra: I russi chiudono il varco della speranza
Guerra: I russi chiudono il varco della speranza . A Zaporizhzhia lo chiamano il «varco». È la striscia di terra che collega l’Ucraina libera a quella in mano alle truppe di Mosca.
Un corridoio informale, a trenta chilometri dalla città che dà il nome alla regione e che per chi fugge dall’occupazione russa è il primo approdo.
Fino a dicembre è stata la frontiera della speranza; il passaggio per raggiungere l’unico posto di blocco della polizia locale dopo aver attraversato le “aree grigie”, quelle terre di nessuno che non sono presidiate né dai militari di Kiev, né dal nemico; la sola via d’uscita dal terrore e dalle rappresaglie.
Poi le autorità provvisorie che fanno capo al Cremlino hanno dato l’ordine di chiudere tutto. O meglio, hanno imposto che si potesse lasciare l’Ucraina meridionale solo con un lasciapassare.
Permessi impossibili da ottenere negli ultimi due mesi. L’effetto è stato quello di una «reclusione forzata per gli abitanti ucraini», come la definisce il sindaco in esilio di Melitopol, Ivan Fedorov, che denuncia: «Da gennaio appena dieci persone sono riuscite a giungere a Zaporizhzhia dalle zone occupate. Di fatto le forze russe tengono imprigionata la nostra gente».
Rifugiati e operai convivono fianco a fianco, entrando e uscendo anche dallo stesso ingresso. «Dall’inizio dell’invasione sono passati di qui più di 3mila profughi», precisa Irina. E anche lei lo è. Abitava in Crimea fino ad aprile. «Non potevamo andarcene prima. Avevo i figli piccoli. Vogliamo vivere liberi e non è possibile farlo in una penisola dove buona parte della popolazione sostiene Putin ed è convinta che sia giusto conquistare l’Ucraina». La guerra è stata la molla per tagliare i ponti con un passato ingombrante. «I miei due ragazzi sono in Germania a studiare. Io e mio marito siamo rimasti per sostenere il nostro Paese aggredito».
Alle spalle ha un dispensario con abiti, prodotti per l’igiene e giocattoli, mescolati alle bandiere dell’Ucraina che scendono dalle condutture dell’aria calda. «La gente che arriva nel rifugio non ha più nulla. In molti casi si presenta con una valigia in mano o poco più». E con le ferite nell’anima. «Abbiamo creato anche un servizio psicologico», aggiunge la responsabile. Una mamma stende i panni vicino al “giardino dei bambini”. «È il nostro asilo interno – indica Irina –. Quasi la metà degli ospiti è minorenne». Nel tavolo dietro l’angolo Fedor e Luka seguono online le lezioni di scuola davanti a due computer portatili.
Non è un unico, immenso dormitorio quello in cui si coabita. Con i séparé di una fiera sono state ricavate le camere. Alcune sono vuote, ma con le lenzuola già sistemate sui materassi. «Siamo sempre pronti a nuove emergenze», chiarisce la coordinatrice. Alle sei e mezzo della sera suona una sirena. Non è l’allarme anti-aereo ma l’invito a cena. Davanti ai fornelli Aleksay, originario di Enerhodar, la città della centrale atomica. «Un razzo è caduto davanti a casa – racconta –. Ho tre figli. E con mia moglie non intendevamo stare sotto i russi». È diventato cuoco. «Non facciamo assistenzialismo – conclude Irina –. È bene che lavori chi ne ha la possibilità. E attraverso una ong garantiamo anche un contributo economico. La riconquista non è solo dei territori, ma anche della dignità».
@avvenire
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